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mercoledì 14 settembre 2016

Da Riace una lezione da imparare in tema di immigrazione

Mentre le campagne populiste, xenofobe e razziste spadroneggiano nell'intento di 'accaparrarsi' consensi elettorali, fortunatamente c'è anche chi, risalendo la corrente, dimostra di essere ancora un essere umano che considera l'altro come una risorsa e non come un nemico. Sto parlando del Sindaco di Riace  Domenico Lucano e della gente (poca a dir la verità!) che è rimasta a vivere lì . 
Grazie all'impegno del Sindaco e della cittadinanza, infatti, il paese in provincia di Reggio Calabria ha trovato nuova linfa vitale in chi fuggiva dalla guerra e dalla fame: così curdi, africani, afgani hanno ridato vita all'economia cittadina.


Riace fino a poco tempo fa si stava spopolando ma poi sono arrivati i migranti: "Nel 1998 - racconta il Sindaco - a Riace c'è stato uno sbarco nel nostro mare: sono arrivati qui diversi profughi che venivano dal Kurdistan. All'epoca non c'era tutta questa attenzione sulla questione immigrazione. Con quelle persone abbiamo deciso di far scattare un meccanismo di solidarietà collettiva".
Da allora quello che era un paese con un'età media alta e destinato a spopolarsi, come purtroppo molte località del nostro meridione, ha ritrovato vita: "Abbiamo iniziato ad accogliere i profughi nelle strutture parrocchiali. Piano piano loro sono diventati cittadini e amici. La nostra non è un'integrazione, ma un'interazione". Anche i figli del sindaco non vivono a Riace ma il paese ha riaperto la sua scuola e le sue botteghe da quando sono arrivati i migranti: per le strade tante sono le coppie miste e i bimbi dalla pelle scura che parlano italiano con perfetto accento reggino.
*

Questo è quello che considero un esempio virtuoso da clonare ovunque: in Italia e nel mondo!

Ulteriore elemento di riflessione me l'ha dato uno scritto che 'rubo' (non me ne vorrà, spero!) da Facebook di un Avvocato originario di Nicotera, Francesco Di Pietro, ma che vive a Perugia, il quale anziché cercare, come tutti gli avvocati, clientela danarosa da 'difendere' nei tribunali, ha deciso di spendere la sua professionalità al servizio degli immigrati, delle loro storie e dei loro diritti. Conosco Francesco e so quanta umanità e professionalità mette nel suo lavoro, ..... molto difficile tra l'altro!

Ecco lo scritto, spero illuminante, per noi abituati a sentire, della Calabria, solo storie di mafie, di ndrangheta, di degrado e per tutti quelli che considerano l'immigrazione una piaga, un male da debellare.




40 MINUTI
(O I LUOGHI DELLA NORMALITÀ) 
di Francesco di Pietro.


La Calabria è una terra bagnata da due mari.
Su una collina in riva al mar Tirreno vi è il mio paese natìo, baciato dal sole ed accarezzato dal maestrale: Nicotera. "Nike teros", la più vittoriosa.


È circondato a Sud dalla Sicilia col suo Etna sbuffante, e ad Ovest dalle isole Eolie con un altrettanto fumeggiante Stromboli.

Nel mezzo, il mare con le barche dei pescatori. Che, per le loro vele bianche e triangolari, si sarebbero potute scambiare "per rondinelle dirette al nido" (scrive Alexander Dumas padre, in "Mastro Adamo, il calabrese"). 



Un giorno decido di andare dall'altra parte, sul versante jonico. Per visitare un paese di cui tanto avevo letto negli ultimi mesi: Riace.

É la mattina del 17 agosto e sulla lunga spiaggia di Nicotera Marina i tanti bagnanti cercano riparo dal sole cocente sotto colorati ombrelloni. Altri nuotano nel blu del mare, a tratti biancheggiante a causa delle onde. 



Percorro la strada che taglia le campagne di agrumeti della piana di Gioia Tauro.
Campagne ammirate da Carlo Levi, che passandovi in treno, così le descrisse nel romanzo "Le parole sono pietre": "Vicini passavano i boschi d’argento e i campi degli aranci e dei limoni con le fresche ombre scure e le palle dei frutti fosforescenti di una loro intensa luce rossa e gialla, come mille piccoli soli". 

Giungo a Rosarno, per poi imboccare la strada che collega i due mari.
Si impiegano 40 minuti per raggiungere il mar Jonio.
Ogni tanto incrocio qualche migrante africano in sella ad una bici sgangherata. Pedala a fatica, sul ciglio della strada, per raggiungere i campi, dove lo attendono altrettanta fatica ed una misera paga.
Ed il ricordo va a scene viste tanti anni fa. Quando da studente mi recavo, alle prime ore del mattino, alla stazione di Rosarno. E vedevo le lunghe fila di migranti africani seduti su un muretto ad attendere il furgoncino del caporale.
Vedevo allora ed ho continuato poi a vedere.
Vedevo le baracche fatiscenti e le tende improvvisate. O i vestiti stesi ad asciugare sui muri di cinta della famigerata Cartiera. E mio papà che, transitando da lì in auto, accostava, si avvicina ad un gruppetto di migranti per dare loro qualcosa, qualche lira. "Almeno stasera mangeranno qualcosa" - diceva rattristato una volta risalito in auto.
Ed il pensiero va anche ai lunghi ed appassionati dialoghi con l'amico Giuseppe Pugliese dell'associazione "SoS Rosarno". Un eroe romantico calabrese. Uno dei pochi rimasti. Un Don Chisciotte del tempo presente contro i mulini a vento del tempo presente: le multinazionali alimentari e la GDO. 

Eccomi al porto di Gioia Tauro. Alte gru ed infinite distese di colorati container.
Dentro, ben imballate, le merci in viaggio da un continente all'altro.
A pochi chilometri dalle tende fatiscenti di San Ferdinando con dentro miseri esseri umani in viaggio da un continente all'altro.
Da lì si imbocca la strada di grande comunicazione Jonio - Tirreno.
Ci siamo lasciati alle spalle le campagne con mandarini e limoni. Il paesaggio cambia, diviene montano, pieno di fitti boschi. Siamo nei pressi dell'Aspromonte. E per un attimo mi ricorda la mia verde Umbria.
Eccolo poi variare in distese brulle, quasi aride. Sono i letti asciutti delle fiumare. Caratteristica della Calabria.
Dopo pochi chilometri, "Tálatta! Tálatta!". Compare in lontananza il mar Jonio. 

In 40 minuti, in Calabria, si passa da un mare all'altro.
Arrivo a Gioiosa Jonica e proseguo verso nord. Statale 106. Strada pericolosa e spesso teatro di incidenti mortali.
Attraversa e collega tra loro diversi paesi costieri. Proseguendo verso Nord, dopo Gioiosa, ecco Roccella, poi Caulonia.
Guido ed osservo il paesaggio.
Mi hanno sempre colpito le case incomplete. Tanti palazzi hanno la facciata con i mattoni a vista e sono senza tetto: ci sono i pilastri per costruire poi un altro piano. Si vuole sopraelevare, si vuole costruire la casa per i figli, per quando si sposeranno. Quei pilastri son brutti, é vero. Ma il motivo della loro presenza mostra una cosa dell'animo dei calabresi: pensare ai figli.
Lo ha ben narrato il registra calabrese Gianni Amelio nel film "Il ladro di bambini". Mi ha sempre commosso la scena dell'abbraccio tra il nipote carabiniere e la nonna, in mezzo alle case incomplete e con alle spalle le auto che sfrecciano indifferenti sulla 106. In quella breve scena sono narrati tutti i pregi e tutti i difetti di questa terra. 

Continuo il mio viaggio.
Passando per Caulonia, mi ricordo di una storia letta al Liceo. Quella dell'autoproclamata "Repubblica rossa di Caulonia" nel 1945 e della rivolta dei contadini, soggetti alle angherie dei potenti proprietari terrieri. Una sorta di repubblica partigiana del profondo Sud. O almeno mi piace pensarlo. 

Infine arrivo a Riace Marina. In quelle acque, nel 1972, furono scoperti i famosi bronzi. Uno dei doni più preziosi dei nostri antenati greci.
La mia destinazione è Riace superiore. Dalla costa mi sposto verso l'interno, percorrendo una strada con tornanti in salita e che taglia un paesaggio arido e con scarsa vegetazione.
La terra arsa dal sole mostra le difficoltà di vita che hanno sempre avuto gli abitanti di questa parte di Calabria. 

Giungo a Riace accolto da colorati segnali: "Il paese dell'accoglienza".
E faccio presto a capire che sia proprio così.
Nella piazzetta, alcune ragazze nigeriane siedono sulle panchine, all'ombra degli alberi, con i loro bambini. Loro vicine, siedono alcune anziane signore.
Entro nel bar per un caffè e scambio due chiacchiere con il barista.
"Io sono di Nicotera." - dico.
"Ah! Dall'altro lato!" - esclama.
Subito vengo avvicinato da un anziano signore dai modi garbati. Mi chiede se fossi appena arrivato e mi da alcuni consigli sulle cose da vedere.
Gli chiedo del sindaco Domenico Lucano.
"Era qui poco fa!" - mi risponde. 

L'anziano signore non era solo. Era accompagnato da un suo amico, anche lui con tante primavere sulle spalle.
Sedevano insieme al tavolino del bar.
È facile imbattersi, nei tanti piccoli paesi della Calabria, in anziane persone sedute sul gradino dell'uscio di casa, su una panchina o al tavolino di un bar.
Stanno seduti. Non fanno nulla e parlano pochissimo. Assorti nei loro pensieri.
Ho sempre pensato che essi fossero come gli eredi degli antichi filosofi greci, vissuti anticamente in questi luoghi, in Magna Grecia.
Ad un osservatore distratto potrebbero sembrare dei meri sfaccendati. Ma a guardarli bene nei loro volti solcati dalle rughe, a guardare il loro sguardo assorto e gli occhi fissi nel vuoto, vengono in mente Eraclito o Empedocle. 
C'è un filo rosso, infatti, tra quei vecchi ed i filosofi presocratici.
"Era destino!" - si sente spesso dire sospirando ai nostri vecchi.
"Panta rei." (Tutto scorre) - diceva Eraclito.
C'è un filo rosso tra il divenire eracliteo ed il nostro fatalismo o la nostra rassegnazione.
Altra eredità lasciataci dagli antichi greci. Come quei bronzi rinvenuti nel mare di Riace. Ma non altrettanto bella. 

Percorro la via principale del paese e la mia attenzione è attirata subito dai colorati grandi disegni sui muri della case.
Ne riconosco subito uno già visto in una foto su un sito internet: tante nuvole con i nomi dei tanti paesi da cui arrivano i migranti.
"Dove vanno le nuvole?" - c'è scritto in basso. Forse un omaggio a Modugno o forse a Pasolini.
"Cosa sono le nuvole?" - faceva chiedere Pier Paolo Pasolini a Otello, Ninetto Davoli, nell'omonimo film. 

"Villaggio globale". La scritta campeggia su un colorato arco in legno.
Dopo di esso, un laboratorio artigiano di ceramica. Entro per ammirare i lavori esposti.
Al suo interno sedevano, intente a decorare, una ragazza di Riace ed una ragazza pakistana.
"Lei non parla italiano. Comunichiamo in inglese." - dice la ragazza italiana.
"Ma tu non parli urdu?" - chiedo scherzosamente a quest'ultima, che risponde ridendo.
La giovane pakistana e' molto bella. Ha dei lunghi capelli nero corvino. Non parla ed ha un contegno serio. Il suo silenzio la rende un po' misteriosa e quindi ancora più bella. 

Cammino per le viuzze del paese. Molto simili al centro storico della mia Nicotera. Mi ricordano il quartiere baglio ai piedi del Castello dei Ruffo.
Ecco il bel murale dedicato a Peppe Valarioti, "giovane ribelle". Rosarnese, comunista, ucciso a soli trent'anni dalla 'ndrangheta. Fu ucciso a Nicotera, a colpi di lupara. Un po' di Rosarno in quel di Riace. 

Da un grande portone sovrastato da un antico portale in pietra escono due ragazze nigeriane cinte da lunghe vesti colorate. Parlano a voce alta, come sono solite le nigeriane. E ridono.
Salgono su per la viuzza in salita e si fermano a parlare con alcune anziane persone.
Passa per la piazzetta un'altra ragazza nigeriana con il figlioletto legato dietro la schiena a dormire beato.
Il silenzio e' rotto dal rumore di un piccolo trattore guidato da un giovane africano. Tira un altrettanto piccolo rimorchio con i sacchetti della raccolta differenziata. 

Percorro una via in discesa e mi dirigo verso un arco (una lamia, diremmo in dialetto nicoterese).
C'è un affaccio sulle campagne circostanti. Un paesaggio brullo ed arido.
Lì, su una parete, un grande disegno raffigura il volto rugoso di una nostra vecchia ed accanto una giovane mamma africana che tiene la figlia per mano.
Il prima ed il dopo. Il paese in cui son rimasti solo i vecchi e che stava per morire, oggi rivive ripopolato dai giovani nuovi arrivati. 

È nella normalità delle cose.
Da un lato abbiamo dei tetti senza le persone sotto.
Da un altro lato abbiamo persone senza un tetto sopra la testa.
Il resto va da sé. È semplice. È normale che quelle persone vadano a vivere sotto quei tetti.
È l'utopia della normalità di cui parla il sindaco di Riace, Domenico Lucano.
La giustizia è sorella della semplicità. Non dobbiamo stare ad interrogarci su quale sia il migliore modello di giustizia, per poi dimenticarci di attuarla.
La giustizia tende a manifestarsi nei fatti, scriveva Cicerone in un frammento al "De Repubblica".
La giustizia deve essere un fatto. Un fatto semplice e normale. Ed a Riace la giustizia si manifesta nei fatti. 

Ed eccone tanti altri di tali fatti.
Una bottega di lavorazione di oggetti in vetro e rame dove lavorano insieme una ragazza di Riace ed una ragazza somala.
Una bottega di lavori di ricamo dove lavora una elegante donna afghana con un colorato velo a coprirle il capo e dal portamento aristocratico. Non sorride e non parla, chiusa in un suo dignitoso silenzio.
Compro qualche oggetto.
Non chiedo loro nulla. Ho sempre pensato che qualsiasi domanda posta ai rifugiati rischia di apparire stupida.
Chiedo solo il paese di provenienza. Mi basta quello per capire la loro storia.
Penso alla situazione di sottomissione ed ai drammi delle donne afghane. Penso per un attimo ad una mia assistita, Madina, ed a sua madre vittima dei talebani.
Non chiedo nulla. Meglio un sorriso ed un incrocio di sguardi.
Ci tengo però a dire loro: "Buon lavoro". Non può esserci asilo senza lavoro.
Dire "buon lavoro" ad una donna che non ha mai potuto lavorare, poiché in Afghanistan alle donne è impedito, significa dire: "Stai lavorando. Adesso sei libera." 

Una vita tranquilla e normale. La normalità.
La normalità a Riace non è più un'utopia, nel senso di "u topos", non luogo; ma ha trovato un luogo.
Ed ha trovato un luogo anche in tanti altri paesi di questa Calabria. Lo ha trovato nella vicina Camini.
È l'accoglienza dei migranti che c'è nei tanti paesi della Locride.
Un tempo qui i greci veneravano Giove Xeno, protettore degli ospiti.
Ora si venera un altro Dio, ma è rimasta la sacralità dell'ospite. 

Penso che a poca distanza da Riace vi è Stilo. Il paese di Tommaso Campanella.
Mi piace pensare che nei paesi della Locride si stia per costruire la sua "Città del sole", dove tutto è di tutti, dove tutte le cose sono in comune. 

Prendo la strada del ritorno. Per tornare sul Tirreno.
In 40 minuti sono dall'altra parte.
Rieccomi nella piana di Gioia Tauro, nelle campagne di agrumi.
A poca distanza dalle baracche dei braccianti africani c'è un lussuoso campo da golf.
Una delle contraddizioni di questa terra. Una delle contraddizioni del "civile" Occidente. 

Ritorno nella mia Nicotera ed osservo l'esteso centro storico con le tante case poste sul pendio della collina a guardare il mare.
Tante case tutte disabitate. E penso come sarebbe bello fare come a Riace.
È molto semplice. Si tratta di dare ai neo arrivati ciò che noi abbiamo abbandonato.
Sarebbe un buon inizio per un mondo migliore. Per un mondo normale.






* Cfr. http://www.today.it/cronaca/intervista-sindaco-riace-domenico-lucano-migranti.html


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martedì 9 agosto 2016

Il capitale internazionale: la nuova età imperiale


NOAM CHOMSKY: 
NON HA PIÙ IMPORTANZA CHI DETIENE IL POTERE POLITICO, TANTO NON SONO PIÙ LORO A DECIDERE LE COSE DA FARE.

di Noam Chomsky (basato su dibattiti tenuti in Illinois, New Jersey, Massachusetts, New York e Maryland nel 1994,1996 e 1999)


UN uomo: Negli ultimi venticinque anni il capitale finanziario multinazionale, piuttosto che negli investimenti e nel commercio, è stato impiegato nelle speculazioni sui mercati azionari internazionali, al punto da dare l’impressione che gli Stati Uniti siano diventati una colonia alla mercé dei movimenti di capitali internazionali. Non ha più importanza chi detiene il potere politico, tanto non sono più loro a decidere le cose da fare. Che portata ha, oggi, questo fenomeno sulla scena intemazionale? Per prima cosa dobbiamo fare più attenzione al linguaggio che utilizziamo, me compreso. Non dovremmo parlare semplicemente di “Stati Uniti”, perché non esiste una simile entità, così come non esistono entità come l'”Inghilterra” o il “Giappone”. Può darsi che la popolazione degli Stati Uniti sia “colonizzata”, ma gli interessi aziendali che hanno base negli Stati Uniti non sono affatto “colonizzati”. A volte si sente parlare di “declino dell’America”, e se si osserva la quota mondiale di produzione che viene effettuata sul territorio degli Stati Uniti è vero, è in declino. Ma se si considera la quota di produzione mondiale delle aziende che hanno sede negli Stati Uniti, ci si accorgerà che non c’è alcun declino, anzi, le cose vanno per il meglio. Il fatto è che questa produzione ha luogo soprattutto nel Terzo mondo. Quindi possiamo parlare di “Stati Uniti” come entità geografica, ma non è questo ciò che conta nel mondo degli affari. In sintesi, se non si parte da un’elementare analisi di classe non si riesce nemmeno a comprendere il mondo reale: cose come “gli Stati Uniti” non sono entità. Ma lei ha comunque ragione: gran parte della popolazione degli Stati Uniti viene sospinta verso una sorta di condizione sociale da Terzo mondo colonizzato. Dobbiamo però ricordare che esiste un altro settore, composto da ricchi manager, da ricchi investitori e dai loro scherani nel Terzo mondo, come i gangster della mafia russa o qualche ricco dignitario brasiliano, che curano i loro interessi a livello locale. E questo è un settore del tutto diverso, i cui affari stanno andando a gonfie vele. Per quanto riguarda i capitali destinati alle speculazioni, anch’essi hanno una parte estremamente importante. Lei è nel giusto quando sostiene che hanno un enorme impatto sui governi nazionali. Si tratta di un fenomeno molto esteso; le cifre sono di per sé impressionanti. Intorno al 1970, circa il 90 percento del capitale coinvolto nelle transazioni economiche internazionali veniva utilizzato a scopi commerciali o produttivi e soltanto il 10 percento a scopi speculativi. Oggi le cifre si sono invertite: nel 1990, il 90 percento del capitale totale era utilizzato per la speculazione; nel 1994 si era saliti addirittura al 95 percento. Inoltre l’ammontare globale del capitale speculativo è esploso: l’ultima stima della Banca mondiale indicava una cifra di circa 14 000 miliardi di dollari. Ciò significa che ci sono 14 000 miliardi di dollari che possono essere liberamente spostati da un’economia nazionale a un’altra: un ammontare enorme, superiore alle risorse di qual siasi governo nazionale, e che quindi lascia ai governi possibilità estremamente limitate quando si tratta di operare scelte politiche economico-finanziarie. Perché si è verificata una crescita tanto imponente del capitale speculativo? I motivi chiave sono due. Il primo ha a che fare con lo smantellamento del sistema economico mondiale del dopoguerra, che avvenne nei primi anni settanta. Vedete, durante la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti riorganizzarono il sistema economico mondiale e si trasformarono in una sorta di “banchiere globale” [durante la Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite a Bretton Woods, nel 1944]: il dollaro diventò la valuta mondiale, venne fissato all’oro e divenne il punto di riferimento per le valute degli altri paesi. Questo sistema fu alla base della consistente crescita economica degli anni cinquanta e sessanta. Ma negli anni settanta il sistema di Bretton Woods era divenuto insostenibile: gli Stati Uniti non erano più abbastanza forti economicamente da continuare a essere il banchiere del mondo, soprattutto per gli alti costi della guerra nel Vietnam. Così Richard Nixon prese la decisione di smantellare del tutto l’accordo: all’inizio degli anni settanta sganciò gli Stati Uniti dal sistema monetario aureo, aumentò le tasse sulle importazioni, distrusse tutto il sistema. La fine di questo sistema di regolamentazione internazionale diede l’avvio a una speculazione sulle valute senza precedenti e a una fluttuazione degli scambi finanziari, fenomeni da quel momento in costante crescita. Il secondo fattore che ha determinato il boom del capitale speculativo è stato la rivoluzione tecnologica nelle telecomunicazioni, che avvenne nello stesso periodo e rese d’improvviso molto facile il trasferimento di valuta da un paese all’altro. Oggi, virtualmente, l’intera Borsa valori di New York si sposta a Tokyo durante la notte: il denaro è a New York di giorno, poi viene trasferito “via rete” a Tokyo, e siccome il Giappone è in anticipo di quattordici ore rispetto a noi, lo stesso denaro viene utilizzato in entrambi i posti. Ormai, quasi 1000 miliardi di dollari vengono spostati quotidianamente sui mercati speculativi internazionali, con effetti enormi sui governi nazionali. A questo punto, la comunità internazionale che gestisce questi investimenti ha un virtuale potere di veto su tutto ciò che un governo nazionale può fare. È quanto accade oggi negli Stati Uniti. Il nostro paese si sta riprendendo lentamente dall’ultima recessione; certamente è la ripresa più lenta dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma c’è stagnazione soltanto sotto un certo punto di vista: la crescita economica è molto bassa, si sono creati pochi posti di lavoro (in realtà, per molti anni, i salari sono persino scesi durante questa “ripresa”), ma i profitti sono andati alle stelle. Ogni anno la rivista Fortune esce con un numero dedicato alla ricchezza delle persone più importanti del mondo, Fortune 500, il quale ci dice che i profitti in questo periodo si sono impennati: nel 1993 erano molto buoni, nel 1994 esaltanti e nel 1995 avevano battuto ogni record. Nel frattempo i salari reali scendevano, la crescita economica e la produzione erano molto basse e questa lenta crescita a volte veniva addirittura fermata perché il mercato obbligazionario “dava segnali” di non gradirla. Vedete, gli speculatori finanziari non vogliono la crescita: vogliono valute stabili, quindi niente crescita. La stampa specializzata parla apertamente della «minaccia di una crescita troppo impetuosa», della «minaccia di un eccesso di occupazione»: tra di loro lo dicono chiaramente. Il motivo? Chi specula sulle valute teme l’inflazione, perché fa diminuire il valore del suo denaro. E qualunque tipo di crescita o di stimolo economico, qualunque diminuzione della disoccupazione minacciano di far crescere l’inflazione. Agli speculatori valutari questo non piace, così quando vedono i primi segnali di una politica di stimolo dell’economia o di una qualsiasi iniziativa capace di produrre una crescita, portano via i capitali da quel paese, provocando una recessione. Il risultato complessivo di queste manovre è uno spostamento internazionale verso economie a bassa crescita, bassi salari e alti profitti, perché i governi nazionali che cercano di prendere decisioni di politica economica e sociale non hanno mano libera temendo una fuga di capitali che potrebbe far crollare le loro economie. I governi del Terzo mondo sono bloccati, non hanno nemmeno la possibilità di portare avanti una politica economica nazionale. Ormai c’è da chiedersi se anche le grandi nazioni, Stati Uniti inclusi, abbiano la possibilità di farlo. Non credo che i governi che si sono succeduti in America avrebbero voluto politiche economiche molto diverse ma, nel caso, penso che sarebbe stato molto difficile, se non impossibile, attuarle. Per darvi soltanto un esempio, subito dopo le elezioni del 1992, sulla prima pagina del Wall Street Journal comparve un articolo in cui si informavano i lettori che non avevano alcun motivo di temere che qualcuno dei “sinistrorsi” vicini a Clinton avrebbe cambiato qualcosa una volta arrivato al potere. Ovviamente il mondo degli affari già lo sapeva, come si può notare osservando l’andamento dei mercati finanziari verso la fine della campagna elettorale. Ma ad ogni buon conto il Wall Street Journal spiegò che, se per qualche sfortunata coincidenza Clinton o qualsiasi altro candidato avesse cercato di avviare un programma di riforme sociali, sarebbe stato immediatamente bloccato. L’articolo affermava una cosa ovvia e citava i dati che la confermavano. Gli Stati Uniti hanno un forte debito, che era parte integrante del programma Reagan-Bush per non permettere al governo di portare avanti iniziative di spesa sociale. “Essere in debito” significa soprattutto che il dipartimento del Tesoro ha venduto un sacco di titoli – obbligazioni, buoni del Tesoro e via discorrendo – agli investitori, che a loro volta li scambiano sul mercato dei titoli. Secondo il Wall Street Journal, ogni giorno si scambiano circa 150 miliardi di dollari esclusivamente in titoli del Tesoro. L’articolo spiegava che se gli investitori che possiedono questi titoli non apprezzano le politiche del governo americano possono, come avvertimento, venderne qualche piccola quota e ciò provocherà automaticamente un aumento del tasso d’interesse, che a sua volta farà aumentare il deficit. Ebbene, in questo articolo si calcolava che se questo “avvertimento” fosse sufficiente ad alzare il tasso d’interesse dell’1 percento, il deficit aumenterebbe da un giorno all’altro di 20 miliardi di dollari. Ciò significa che se Clinton (questa è pura immaginazione) proponesse un programma di spesa sociale di 20 miliardi di dollari, la comunità degli investitori potrebbe trasformarlo istantaneamente in un programma da 40 miliardi dollari, con un solo piccolo segnale, bloccando così ogni altra mossa di quel genere. Contemporaneamente, sull’Economist di Londra – grande giornale liberista – si poteva leggere un articolo fantastico sui paesi dell’Europa orientale che avevano votato per far tornare al potere i socialisti e i comunisti. Ma in sostanza l’articolo invitava a non preoccuparsi, perché «l’amministrazione è sganciata dalla politica». In altre parole, indipendentemente dai giochi che quei tipi si divertono a fare nell’arena politica, le cose continueranno come sempre, perché li teniamo per le palle: controlliamo le valute internazionali, siamo gli unici che possono concedere prestiti, possiamo distruggere le loro economie come e quando vogliamo. Che si occupino pure di politica, che fingano pure di avere la democrazia che vogliono, facciano pure: basta che «l’amministrazione sia sganciata dalla politica». Quello che sta accadendo in questo periodo è una novità assoluta. Negli ultimi anni si sta imponendo un nuovo tipo di governo, destinato a servire i bisogni sempre crescenti di questa nuova classe dominante internazionale, che a volte è stata definita “il governo mondiale di fatto”. I nuovi accordi internazionali sul commercio riguardano proprio questo aspetto, e parlo del NAFTA, del GATT e così via, così come della cee e delle organizzazioni finanziarie come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Banca interamericana di sviluppo, l’Organizzazione mondiale del commercio (wto), i G7 che programmano gli incontri tra i grandi paesi industrializzati. Questi organismi sono tutti espressione della volontà di concentrare il potere in un sistema economico mondiale che faccia sì che «l’amministrazione sia sganciata dalla politica»; in altre parole, che la popolazione mondiale non abbia alcun ruolo nel processo decisionale, che le scelte strategiche vengano trasferite in un empireo lontanissimo dalle possibilità di conoscenza e di comprensione della gente, che così non avrà la minima idea delle decisioni che influenzeranno la sua vita e certo non potrà modificarle. La Banca mondiale ha un proprio modo per definire il fenomeno: lo chiama “isolamento tecnocratico”. Quindi, se leggete gli studi della Banca mondiale, vedrete che parlano dell’importanza dell’ “isolamento tecnocratico”, alludendo alla necessità che un gruppo di tecnocrati, essenzialmente impiegati nelle grandi imprese multinazionali, operi in pieno “isolamento” quando progetta le politiche perché, se la gente venisse coinvolta, potrebbe farsi venire in mente brutte idee, come un tipo di crescita economica che operi a favore di tutti invece che dei profitti e altre sciocchezze del genere. Allora bisogna che i tecnocrati siano isolati, e una volta ottenuto lo scopo si potrà concedere tutta la “democrazia” che si vuole, tanto non farà alcuna differenza. Sulla stampa economica internazionale questo quadro è stato definito con una certa franchezza come “la nuova età imperiale”. E la ritengo una definizione azzeccata: di certo stiamo andando in quella direzione.


Fonte:
Ribloggato da : https://miccolismauro.wordpress.com/2014/11/30/il-capitale-internazionale-la-nuova-eta-imperiale/